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martedì 8 aprile 2014

Contro gli abusi sessuali sui minori adesso c’è la legge, ma molto è ancora da scrivere


pubblicato sul n. 16/2014 della rivista Consulenza, ed. Buffetti


Probabilmente la trasposizione in legge nazionale della direttiva europea in materia di lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile avrebbe avuto bisogno di maggiore estensione, in maniera da affrontare con un criterio di organicità i molteplici aspetti che vengono interessati e  coinvolge soprattutto il sottofondo di numerose attività che con tutto l’argomento hanno relazione. Non si tratta solo di assicurare la correttezza dei rapporti nell’ambito dell’ambiente di lavoro, ma le problematiche in campo riguardano diversi livelli che hanno a che fare con altrettanti settori d’impegno nei confronti dei giovani. E si va dalla scuola allo sport, alle attività ricreative e sociali e finanche al campo religioso.

Fa perciò discutere e un po’ anche delude il recente provvedimento legislativo che crede di risolvere la questione limitandosi ad imporre ai datori di lavoro la richiesta del certificato penale a quei dipendenti che lavorino oppure operino a contatto con i minori, senza affrontare la varietà e la complessità delle situazioni che di questa materia sono caratteristiche. Intendiamoci: il tutto non è che la trasposizione nel diritto italiano di una direttiva europea adottata più di due anni fa; e precisamente la direttiva 2011/92/UE relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea il 17 dicembre 2011. Vediamo perciò il tutto più da vicino.

Tra le motivazioni esposte nel  considerando 40 della direttiva c’era che “i datori di lavoro hanno il diritto di essere informati, al momento dell’assunzione per un impiego che comporta contatti diretti e regolari con minori, delle condanne esistenti per reati sessuali a danno di minori iscritte nel casellario giudiziario o delle misure interdittive esistenti”, aggiungendo che “la nozione di datore di lavoro dovrebbe contemplare anche le persone che gestiscono un’organizzazione operante in attività di volontariato attinenti alla custodia e/o alla cura dei minori e che prevedono un contatto diretto e regolare con essi”. Tale esigenza è stata tradotta in norma nell’art. 10 della direttiva, la cui trasposizione in legge dello stato italiano è avvenuta con decreto legislativo 4 marzo 2014 n. 39 che, di fatto, si limita ad aggiungere un articolo al DPR 313/2002, Testo unico sul casellario giudiziale e precisamente l’art. 25-bis che impone a chi intenda impiegare al lavoro per lo svolgimento di attività professionali o volontarie che comportino contatti diretti e regolari con minori di richiedere il certificato penale della persona che ne sarà incaricata. La stessa norma che introduce l’art. 25-bis prevede poi sanzioni amministrative pesanti per il datore di lavoro – come si può notare formulazione diversa da chi intenda impiegare al lavoro – che non adempia a questo obbligo.

Questo testo troppo stringato è non solo insufficiente per l’ampia problematica di cui si è fatto cenno, ma è anche restrittivo rispetto alla direttiva; la quale infatti si propone di:
a) scongiurare la possibilità che persone già condannate per reati di natura sessuale nei confronti di minori possano svolgere attività professionali che comportano contatti diretti e regolari con minori
b) riconoscere ai datori di lavoro la possibilità di chiedere informazioni alle persone assunte per attività professionali o volontarie organizzate sull’esistenza di condanne penali per i medesimi reati o di misure interdittive all’esercizio di alcune attività che comportano contatti diretti con minori
c) che il tutto avvenga con il consenso dell’interessato

Il nostro testo di legge invece prevede solo l’obbligo, peraltro pesantemente sanzionato ma in via amministrativa in caso di omissione, a carico del soggetto [datore di lavoro] di verificare l’esistenza di condanne per quel tipo di reati o anche per sanzioni interdittive nei confronti delle persone che s’intendano impiegare per lo svolgimento di attività che comportino contatti “diretti e regolari” con minori; tali attività sia che siano professionali o volontarie. L’obbligo, a norma di legge, consiste nel richiedere il certificato del casellario giudiziale.

Le cose poi si rendono più passibili di critica anche in sede di interpretazioni al provvedimento date dal Ministero della Giustizia, ma soprattutto di prassi, fornite con una circolare e di seguito con due ulteriori note che, in pratica, paiono disattendere in gran parte la norma ed in un certo senso anche lo spirito originario della direttiva.

Innanzi tutto un problema di  efficacia temporale. La legge non lo dice e neppure la norma comunitaria, ma  è difficile non intendere  come generale lo spirito di ambedue le norme, sia quella comunitaria che quella nazionale. Se infatti si fa riferimento ad un problema di protezione dei minori appare singolare che si richieda una certificazione solo per coloro che saranno addetti a rapporti con minori da ora in poi ed altrettanto non si richieda per chi è già inquadrato e incaricato per detti rapporti da prima dell’entrata in vigore della legge: si tratta di un valore assoluto ed in tema di valori assoluti un principio relativo come il tempus regit actum appare non soddisfacente.  Su questo punto però le interpretazioni ministeriali tacciono. E se è possibile pensare che ciò avvenga in presenza di impedimenti di carattere legislativo e tecnico, anche oggettivi, la valenza etica del provvedimento ne soffre e produce inquietanti interrogativi.

Di diverso tenore invece i dubbi suscitati dalla circolare ministeriale del 3 aprile, prevalentemente tecnica perché rivolta alle strutture periferiche della giustizia e che concerne il rilascio delle certificazioni. Qui interviene un problema di privacy a tutela dei soggetti di cui si richiede la certificazione. La norma infatti prescrive che debba essere il datore di lavoro a chiedere il rilascio del certificato penale del casellario giudiziale, che però  nella forma in vigore potrebbe comprendere anche altre circostanze penali a carico del soggetto che non riguardano l’oggetto della norma in questione e che sono meritevoli di tutela a beneficio del lavoratore interessato. Attualmente  gli uffici del casellario non sono attrezzati per effettuare questa separazione e perciò, nelle more del periodo necessario per una adeguata organizzazione, il datore di lavoro, che comunque dovrà richiedere il certificato, otterrà il certificato completo, ma potrà farlo solo se avrà acquisito il consenso del lavoratore interessato. E’ facile ipotizzare che il lavoratore darà il consenso con pregiudizio anche della propria privacy, perché negarlo potrebbe significare di fatto una rinuncia al posto di lavoro, con tutte le considerazioni del caso. Meno male che è una prassi provvisoria. Sì, però ….

Ci sono poi due successive, ma ravvicinate, note di chiarimento. Partiamo dalla seconda, che  è semplicemente dedicata soltanto alla semplificazione delle procedure nelle more del necessario aggiornamento del casellario giudiziario, in particolare per autorizzare il rilascio di certificati che riguardino la sola materia prevista in questo provvedimento legislativo. Così si consente che in caso di dipendenti della pubblica amministrazione o di gestori di pubblico servizio si possa procedere con la richiesta del certificato al casellario e, nelle more, mediante una dichiarazione sostitutiva di certificazione da parte del lavoratore. Analogamente in caso di rapporto di lavoro privato il problema della fase transitoria può essere risolto con una dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà rilasciata dal lavoratore.

La nota precedente invece è più problematica, perché vi si affronta un tema che può dare, anch’esso,  adito ad altre perplessità, dovendosi fornire un’indicazione direttiva su chi sia soggetto all’obbligo di richiedere il certificato. La novella prescrive che debba essere il datore di lavoro e per datore di lavoro s’interpreta colui che stipula con un terzo un contratto di lavoro. La preoccupazione non sottaciuta nella norma era quella di affrancare da queste disposizioni enti o associazioni che organizzano attività di volontariato avvalendosi della collaborazione di soggetti che svolgano il loro compito in forma, appunto, volontaria, in parte anche andando in una direzione diversa da quella prevista nella direttiva europea. Infatti il secondo comma dell’art. 10 della direttiva utilizza il termine datore di lavoro in senso generale, ricomprendendovi  anche le organizzazioni di attività volontarie. Ancor più esplicitamente il considerando 40 afferma che “ai fini della presente direttiva la nozione di datore di lavoro dovrebbe contemplare anche le persone che gestiscono un’organizzazione operante in attività di volontariato attinenti alla custodia e/o alla cura dei minori e che prevedono un contatto diretto e regolare con essi”, senz’altra specificazione se siano dipendenti dell’organizzazione o meno.  E’ vero che sempre il considerando 40 ammette che “il significato delle attività di volontariato organizzate e il contatto diretto e regolare con i minori siano definite conformemente al diritto nazionale”, ma ciò non significa automaticamente che si possa venir meno al principio generale ed oggettivo: e cioè che, indipendentemente dalla qualifica rivestita, dipendente, collaboratore, volontario o altro, sempre di personale che sta a contatto di minori si tratta e come tale portatore di qualità soggettive, ma anche elementi i cui comportamenti devono essere sempre oggettivamente a disposizione e verificabili.

Resta inoltre imprecisato il concetto di datore di lavoro. Ci sono diverse interpretazioni, che in un certo senso possono considerarsi anche come richiesta di talune parti, secondo cui al concetto di datore di lavoro debba affiancarsi quello di committente, evidentemente per soggetti che rendono altri tipi di prestazioni diverse dal lavoro dipendente, come collaboratori coordinati e continuativi più o meno a progetto, tirocinanti o titolari di partita iva, un po’ meno forse associati in partecipazione, e invece ricomprendendo allenatori o preparatori sportivi retribuiti in regime forfettario, avendo riguardo alla considerazione che questa è una materia in cui debbono prevalere le considerazioni di fatto e non le questioni di forma. Tutto questo non è detto nella norma ed un intervento chiarificatore potrebbe essere necessario, ma a questo punto occorrerebbe fare un discorso più generale che coinvolge l’impianto stesso della riforma approvata fino a risalire ancora una volta alla direttiva comunitaria. E’ la stessa direttiva però che appare problematica non tanto nelle motivazioni, perché con il primo comma dell’art. 10 intende stabilire dei paletti di garanzia riguardo all’esercizio di attività professionali che comportino contatti diretti e regolari con minori,  quanto nelle soluzioni, poiché l’obbligo è rivolto  esclusivamente nei confronti del datore di lavoro, al momento dell’assunzione di una persona per attività professionali o attività volontarie organizzate. Ora è vero che la direttiva è destinata ad uniformare sull’argomento la legislazione di tutti gli stati che fanno parte dell’Unione europea in cui coesistono impostazioni differenti nella legislazione del lavoro da paese a paese, ma non è difficile capire che la ratio della norma europea mette al centro dell’interesse il minore e le sue difese e non il datore di lavoro come possa essere variamente inteso. Tanto che non si capisce fino a qual punto la norma italiana, con le successive precisazioni di prassi, sia stata scritta per impedire l’accadere di reati nei confronti dei minori o per far salve le responsabilità del datore di lavoro.

Lo stato attuale della norma nella sua forma succinta e gli scarsi indirizzi o approfondimenti in materia di prassi lasciano molti argomenti in sospeso, anche se su diversi di questi penso potremo registrare uno sviluppo di opinioni. Abbiamo accennato al volontariato, particolarmente quello impegnato nel sociale, ma non dimentichiamo il settore altrettanto ampio degli istruttori sportivi e magari anche degli operatori culturali oppure del personale ausiliario nelle scuole, mentre nessuno finora si è soffermato su quel particolare mondo costituito dal lavoro domestico, anch’esso caratterizzato da riflessi di rapporti con i minori. Pertanto per ora ci fermiamo qui. Magari poi, se ce ne daranno motivo, con calma, ci riaggiorniamo.


Silla Cellino

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